Articolo pubblicato sull’Huffington Post
All’Italia, ora, è necessario un governo pienamente politico, di legislatura, sintesi di un’intesa tra M5S, Pd e, nella consapevolezza dei propri numeri, LeU. Un governo sotto la regia dei leader di M5S e Pd. Composto da ministri politici.
Ha ragione Nicola Zingaretti: un governo istituzionale, di tutti, o quasi, contro la Lega, inizialmente per pochi mesi, poi trascinato sempre più avanti dalla paura del voto, per attuare la linea della Commissione europea in materia di bilancio pubblico, sarebbe un clamoroso autogol: inutile per i nodi veri di fronte al Paese, impotente rispetto alla partita aperta a Bruxelles sui commissari europei, ma efficace a dare ulteriore spinta a Matteo Salvini.
Sarebbe un governo del presidente della Repubblica, fuori dal controllo politico dei partiti chiamati a sostenerlo, esecutore di quella linea della responsabilità istituzionale, causa primaria nel biennio 2011-2012 della rivolta di popolo contro il Pd bersaniano.
Ma sarebbe altrettanto sbagliato e deleterio riconoscere al leader della Lega il dominio sulle istituzioni della Repubblica, a partire dal Parlamento, lasciargli dettare la scadenza elettorale e liberagli la strada per compiere il disegno di neo-liberismo autoritario e di sostanziale secessionismo della Padania attraverso la cosiddetta “Autonomia differenziata”.
Il risultato delle elezioni del 4 Marzo 2018, senza nessuna soluzione definita dal voto, ha restituito piena centralità del Parlamento per la scelta del governo. Di conseguenza, abbiamo archiviato la “Seconda Repubblica” e i presunti governi scelti dai cittadini.
Siamo in un contesto completamente diverso dalla XVI legislatura, quando le urne del 2008 indicarono nettamente maggioranza, centro-destra, e presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e resero inevitabile il “governo tecnico” per evitare il voto. Nella legislatura in corso, un governo M5S, Pd e LeU avrebbe la medesima legittimità politica del governo M5S e Lega.
Il governo da provare a comporre dovrebbe affermare, innanzitutto sul terreno della politica economica, una radicale discontinuità con le stagioni del centrosinistra e de L’Ulivo: dall’europeismo liberista e dalla Terza via blairiana, ancora prevalente nei gruppi parlamentari del Pd e ieri ri-proposta da Walter Veltroni su La Repubblica, si dovrebbe passare alla rotta keynesiana, sia in termini di finanza pubblica che, anzi sopratutto, di regolazione dei mercati.
Gli obiettivi del Patto di Stabilità e Crescita per il 2020, confermati alla Commissione europea dal presidente Conte e dal ministro Tria il 2 Luglio scorso, andrebbero ricontrattati e “forzati”: in primo luogo, per cancellare senza coperture, una volta per tutte, le clausole di salvaguardia su Iva e accise e, in secondo luogo, per programmare un piano pluriennale di investimenti pubblici, un green new deal, incentrato su piccole opere, su reti infrastrutturali per la mobilità sostenibile e le comunicazioni, su rigenerazione delle periferie delle grandi città, su un piano per l’edilizia residenziale pubblica, a partire dal Mezzogiorno.
Nel programma del governo dalla parte del lavoro, oltre a una forma di salario minimo condivisa con le rappresentanze sindacali, dovrebbero trovar posto anche misure di intervento pubblico per arginare il dumping sociale inflitto da mercato unico europeo e de-localizzazioni.
Il programma per l’Italia, dovrebbe includere una strategia di politica industriale, da affidare ad un ambito specializzato di CDP, non soltanto per rilanciare Alitalia, ma per irrobustire le iniziative innovative ancorate alle nostre eccellenze manifatturiere e dei servizi hi-tech.
Il governo di cambiamento progressivo dovrebbe, infine, ma decisamente non ultimo, puntare a declinare l’autonomia differenziata nel senso di rafforzare la Repubblica, una e indivisibile. Quindi, prima di “negoziare” con i governi regionali le Intese da sottoporre alla discussione, agli emendamenti e all’approvazione di Camera e Senato, dovrebbe affidare al Parlamento un Disegno di Legge contenente i criteri di attuazione dell’Art 116, terzo comma della Costituzione, la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep), i costi standard, le capacità fiscali, i fabbisogni standard e il fondo di perequazione.
Sul versante delle revisioni costituzionali, la maggioranza M5S, Pd, LeU dovrebbe approvare, in quarta lettura, la riduzione del numero di deputati e senatori. Conseguentemente, dovrebbe varare, attraverso la più larga condivisione possibile, una legge elettorale proporzionale, munita di una significativa soglia di sbarramento, data l’inesistenza di un bipolarismo al quale sacrificare la rappresentanza ai fini della “governabilità.
Oggi, vi sono le condizioni politiche per realizzare la maggioranza impossibile a marzo dello scorso anno. Oggi, i rapporti di forza tra i protagonisti sono equilibrati.
Oggi, il M5S ha verificato sulla sua pelle le difficoltà del governo. Oggi, il Pd dovrebbe aver maturato la consapevolezza della fase e la disponibilità al cambio di paradigma culturale necessario a ritrovare le fasce di popolo perse. Certo, serve coraggio alle leadership.
I rischi di fallimento sono enormi. Ma con l’impegno per un governo di legislatura, il Pd ricomincerebbe a far politica. Il M5S darebbe un senso alla sua esistenza e potrebbe adempiere alla funzione storica conquistata alle elezioni politiche.
L’alternativa, per entrambi, è fare una più o meno nobile, composta o rissosa, opposizione a chi porta alla fine sostanziale dell’unità nazionale, al servilismo del Sud, alla Padania colonia tedesca, all’aggravamento della svalutazione del lavoro, all’ulteriore sofferenza dell’ambiente e allo stravolgimento della nostra democrazia costituzionale. Siamo a un tornante storico.
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