Nel Dizionario del partigiano anonimo, in realtà di Angelo Del Boca, alla voce “Repubblica” è scritto che, per i partigiani, quella era «Una parola che può significare la parte avversa. Esempio: “arriva la Repubblica!”. Oppure una straordinaria confusione: “che Repubblica!” Chissà quanti anni occorreranno da noi perché riacquisti il suo vero significato»[1].

In realtà, di tempo non ce ne volle molto, ma fu un tempo che costò moltissimo.

Noi diciamo: la Repubblica è nata dalla Resistenza. Facile a dirsi, non fu altrettanto facile a farsi. Sapete, poteva anche non succedere. Potevano anche non vincere i partigiani. Potevano vincere nazisti e fascisti. Nella storia, non vincono sempre i buoni, quelli che lottano dalla parte giusta. La storia non è un ordine consequenziale di eventi in cui, alla fine, il bene vince per forza sul male. Non è così, ce lo dicono, meglio di altro, certo meglio di me, le storie individuali di tutti noi.

La nascita della Repubblica italiana – il bene – è stata una vittoria faticosa, e dolorosa, a tratti – molti tratti – dolorosissima. È costata lutti, tragedie, comunità devastate, borghi distrutti, famiglie cancellate, figli rimasti orfani, sorelle senza fratelli, madri e padri senza figli.

Ed è stata una storia lunga, di decenni, prima dei mesi – anch’essi interminabili, certo – della lotta di Liberazione. La Repubblica è nata nelle carceri, nei luoghi di confino, nelle strade in cui sono stati massacrati di botte e di olio di ricino gli antifascisti. È nata in Spagna, la Repubblica italiana, tra i volontari delle brigate internazionali, che capirono prima di altri quanto fosse importante impegnarsi in Europa, in qualsiasi parte d’Europa, perché anche l’Italia fosse libera. La Repubblica è nata tra i fuoriusciti in Francia, costretti a lasciare tutto e spesso non al sicuro neanche così. È nata nei campi di prigionia dei diversi colori – giallo per gli ebrei, marrone per i rom, rosso per i politici, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, rosa per gli omosessuali – in questa ossessione di dividere tutto rigorosamente, in quel mondo che poi non era altro che bianco e nero. Nero, soprattutto.

Quando diciamo che la Repubblica è nata dalla Resistenza, dobbiamo ricordare che la Resistenza è stata innanzitutto un incontro tra anime politiche e culturali diverse, tra antifascismi di divere generazioni e maturazioni – quell’antifascismo che noi storici definiamo, appunto, “storico”, e quello “esistenziale”, nato sotto le bombe e in preda ai morsi della fame, o al fronte. Un antifascismo vissuto in ambiti diversi, declinato combattendo in Spagna o in carcere, o anche in guerra dal 1940, impantanato nel fango dell’Albania o nelle nevi di Russia.

È costata molto anche dopo, la Repubblica. La sua vittoria elettorale – vittoria già nel fatto che sia stata elettorale, cioè il risultato di una libera espressione di voto, arrivata dopo vent’anni di dittatura – non è stata solo un punto d’arrivo, ma, anzi è stata soprattutto un punto di partenza. Da lì si è partiti per costruire la democrazia, e tanti italiani, educati dal fascismo, hanno prima di ogni altra cosa dovuto capire che cosa fosse la democrazia, e che fosse una cosa buona. Il fascismo, infatti, gliene aveva sempre parlato malissimo.

Per quegli italiani che avevano fatto la Resistenza, fu più facile capire quanto fosse buona la democrazia. Essi, infatti, divennero spesso i maestri – piccoli, grandi maestri – degli altri. La democrazia era qualcosa che avevano appreso facendo la Resistenza, in montagna, nelle città, nelle fabbriche, nei campi di internamento. Tutti i partigiani, tutti i resistenti, nessuno escluso.  

C’è una linea di continuità netta tra Resistenza e costruzione della democrazia, più netta di qualsiasi slogan.

La Resistenza trasmette alla Repubblica che nasce la sua pluralità di idee, valori, attori. È su questa pluralità, tenuta insieme dall’antifascismo, che si fonda la democrazia.

C’è tanto di più. Ad esempio, questo: la Resistenza è un punto di non ritorno nella storia d’Italia. Anche per questo la Repubblica vince. E vince sul serio: 2 mln di voti in più non sono pochi. La vittoria della monarchia, infatti, avrebbe significato tornare indietro a ciò che aveva permesso il fascismo. La vittoria della Repubblica è invece la vittoria della parte antifascista della storia.

Questa vittoria si consolida nella Costituzione, la cui data di nascita è per forza il 2/6/1946 (anche se poi verrà promulgata il 1.1.48). Il 2 giugno si vota per la forma dello Stato e per i membri dell’Assemblea costituente, cioè per coloro che scriveranno la Costituzione nell’anno e mezzo successivo (incredibile, non vi sembra, solo un anno e mezzo per scrivere la carta fondamentale dello Stato, attualissima ancora oggi)

Nella Costituzione c’è scritto anche questo, che dalla Repubblica non si torna indietro, che la forma repubblicana dello Stato non si può modificare. È come dire che dalle conquiste di libertà e giustizia sociale della Resistenza, messe per iscritto nella Costituzione, non si torna indietro. Ed è stato così ed è ancora così: quelle norme, insieme all’Europa unità, restano la più forte garanzia della nostra democrazia.

È per questo che la Repubblica è così bella. Viene da storie diverse che hanno saputo incontrarsi su un terreno comune. Viene dal molto “futuro” che è presente, ad esempio, nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza[2]. È strano pensare che chi sta per morire parli di futuro, eppure domani, avvenire e, appunto, futuro, sono parole che ricorrono spesso in quelle lettere. Il domani è un giorno in cui ci sarà il sole, che è dell’avvenire ma senza, per forza, un colore politico preciso. Oppure è di tutti colori, certo non è nero. Quel futuro è un dono di chi sta morendo, ma è anche un pegno, un impegno che chi sopravvive deve assumersi:

Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone, le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che serviremo da esempio. Sui nostri corpi si formerà il grande Faro della Libertà.

Così scrive, il 4 maggio 1944, a Parma, Giordano Cavestro, 18 anni, partigiano garibaldino con il nome di battaglia “Mirko”. Catturato, condannato a morte, graziato e poi fucilato come ostaggio, per rappresaglia.

Il mondo che verrà è un’eredità che si lascia ai figli, come fa Eusebio Giambone, antifascista “storico”, che nel ventennio ha preso botte, è finito in carcere, è stato costretto a espatriare e ciononostante non ha mai smesso di combattere la sua battaglia. Dopo l’8 settembre entra subito nella Resistenza. I fascisti lo riacchiappano e lo condannano a morte, facendogli pagare una Resistenza di vent’anni. Prima di morire, Eusebio scrive alla figlia:

Per me la vita é finita, per te incomincia; la vita vale di essere vissuta quando si ha un Ideale, quando si vive onestamente, quando si ha l’ambizione di essere utili non solo a sé stessi ma a tutta l’Umanità.

È la stessa cosa che evidentemente pensa, poco prima di essere ucciso, Mario Foschiani, 32 anni, già combattente in Spagna, e poi in carcere, e poi nella Resistenza. Scrive alle sorelle della “nuova vita” che potranno condurre “dopo la vittoria”. Ne è certo, della vittoria, della nuova vita che ci sarà.

A volte sono i figli che scrivono ai genitori, raccontando loro il futuro che hanno preso nelle proprie mani e che stanno costruendo, e chiedendo loro di comprendere una scelta che in molti casi si rivelò letale:

Pensate che mentre sembra che tutto il mondo crolli e che le rovine debbano sommergere tutto, i vostri figli, per vie diverse è vero, guardano al futuro e alla ricostruzione futura dando a questa tutte le loro forze.

Lo scrive Gianfranco Sarfatti, 22 anni, ebreo, comunista, già al sicuro in Svizzera ma all’atto di rientrare in Italia, dove ritorna nella Resistenza e vi muore. È una vita consacrata al futuro, al domani che c’è anche nelle ultime lettere – «Se non dovessi ritornare – scrive nell’ultima lettera l’azionista Gino Onofri, 41 anni, scomparso nei lager –  non ti rammaricare per me; sono sereno e attendo serenamente il domani».

E un altro azionista, il 36enne Paolo Braccini, scrive alla moglie e alla figlia: «Il mondo migliorerà: siatene certe».

Mentre un partigiano cattolico, 19 anni, sceglie, per le sue ultime parole – è fucilato il 29 aprile 1945 – un bellissimo «W la democrazia»

Il maestro elementare Jacopo Lombardini, 52 anni, di fede repubblicana, commissario politico e predicatore evangelico delle formazioni “Giustizia e Libertà”, ucciso nelle camere a gas di Melk il 25 aprile 1945, parla, nella sua ultima lettera di “dare al popolo d’Italia un regime giusto e libero

E il socialista Adolfo Vacchi – Hope, speranza, il nome di battaglia – 57 anni al momento della morte per mano dei fascisti – scrive che nell’«Era nuova» che si stava aprendo il trinomio del regime “credere obbedire combattere” sarebbe stato sostituito da «capire sapere pensare».

Il generale Alberto Trionfi, rinchiuso nel lager di Schokken e destinato a essere ucciso alla fine del gennaio 1945 in una delle tante disperate marce della morte, nella sua ultima lettera, della sera del 31 dicembre 1944, scrive dell’anno che comincia, il 1945, come «anno della Pace».

Voglio concludere queste citazioni con una donna. Glielo devo, glielo dobbiamo tutti. Irma Marchiani, partigiana combattente, vicecomandante di battaglione, uccisa nel modenese, scrive al fratello comunicandogli la decisione di entrare nella Resistenza e si dice «certa» che quella sarebbe pure la sua scelta, del fratello, «se troppe cose non ti assillassero. Bene, basta uno della famiglia e questa sono io.» Morirà, poi, «sicura» di «aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse».

Io ho scelto di festeggiare la Repubblica con le voci di questi resistenti, rappresentanti le anime diverse e plurali della lotta di Liberazione, perché credo che nelle loro parole ci sia molto futuro – nonostante siano ultime parole, apparentemente senza domani.

Le ho scelte perché la Repubblica è nata dalle loro vite, più che dalle loro morti. Il futuro che loro immaginavano era davvero, se fatto concreto, la Repubblica democratica della quale oggi festeggiamo il 75° compleanno. L’avranno pensata con parole diverse, e probabilmente più giusta di quello che è in tanti suoi aspetti, ma non molto diversa. Una Repubblica, una democrazia da difendere sempre, certo, ma questo per loro era forse più ovvio di quanto lo sia per noi, nati dopo e abituati ai privilegi della libertà. Le loro parole, e le loro vite, ci ricordano invece, meglio di qualsiasi altra cosa, che dobbiamo stare attenti, che oggi questo è compito nostro.

Le loro parole ci dicono bene che la Repubblica è davvero nata dalla Resistenza. Dunque, viva la Repubblica e viva la Resistenza.

 Isabella Insolvibile

[1] A. Del Boca, Un uomo ordinato. Il dizionario del partigiano anonimo, in Storie della Resistenza, Palermo, Sellerio, 2013, p. 61.

[2] Gli estratti delle lettere provengono da http://www.ultimelettere.it/

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